Per chi
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è incuriosito dai casi di successo che si auto-alimentano
Per chi non conoscesse questa mostra “viaggiante” (davvero spettacolare ed unica) il video sopra rende bene l’idea dell’esperienza. Perché sì, si tratta proprio di un’esperienza multi-sensoriale. L’idea arriva dall’azienda australiana Grande Exhibitions, la quale nonostante grandiose idee per le mostre a livello globale, sui social media pare abbastanza timida.
Twitter:
Per un’azienda che nasce nel lontano 2002, possiamo considerare la bellezza di 21 tweet un po’ pochini!?
G+:
Nessuna foto, nessun post, niente logo – penso che possiamo presumere che non abbiano nemmeno reclamato la pagina G+!
Su Facebook e Youtube, anche andando a spulciare bene, non c’è traccia dell’azienda. O meglio su Youtube si trova il video promozionale della mostra di Van Gogh creato dall’azienda stessa, ma postato da altri utenti.
Vimeo:
Su Vimeo (piattaforma per la pubblicazione dei video di geek, generalmente di un altro livello ed in definizione nettamente migliore di quella possibile su Youtube), troviamo una fievole traccia dell’azienda australiana, di nuovo senza grandi segni di partecipazione o engagement da parte degli utenti.
E come ciliegina sulla torta, il dominio generale dell’evento di proprietà di Grande Exibitions è vangogh-alive.com. E neppure qui una marcata presenza social. Proprio in fondissimo alla pagina troviamo giusto i due canali attivi menzionati sopra.
Con quest’analisi si potrebbe andare avanti anche per qualche ora. Potremmo guardare la pagina www.vangoghalive.com (a quanto pare di proprietà di un’organizzazione russa che ospiterà la mostra ad ottobre 2015) con associati gli account di Facebook ed Instagram e pure il social russo. Oppure la pagina www.vangoghalive.it apparentemente senza social (e se la raccontiamo tutta anche senza traduzione in inglese, almeno per le prime settimane della mostra). Mi fermo qui, il messaggio che volevo dare credo di averlo dato.
Una campagna comunicativa non coordinata?
Direi che parlare di una campagna poco coordinata è giustificato. Ma pure io, maniaca della coordinazione, coerenza e costanza della comunicazione devo confessare che molto probabilmente questa lacuna non ha creato nessun disagio nella divulgazione della notizia sui social. Con l’evento è nato (probabilmente in modo molto naturale e non forzato) l’hashtag #vangoghalive
#vangoghalive
E poi …
Ho veramente dei seri dubbi che fosse tutto calcolato. Ma ha funzionato. Ha funzionato e sta funzionando davvero bene. Sarei quasi sufficientemente curiosa da scrivere alla Grande Exhibitions e chiedere (sono Australiani, secondo me mi dicono la verità senza vergogna o addirittura con orgoglio, secondo il caso). Gli hashtag non solo non hanno limiti linguistici, ma neppure (a quanto pare) di metodi di scrittura (vogliamo notare nella grafica sopra #vangoghalive – hashtag in inglese – utilizzato in tedesco, russo e italiano?)
Tutto sommato, non ve la posso consigliare come strategia. Per i miei gusti è troppo a rischio. Cosa c’è dietro a questo caso ce lo possiamo solo immaginare (accordi aziendali, politici, istituzionali) moltiplicato per N fattori culturali solo per il fatto che si tratta davvero di un caso “mondiale”. Ma nonostante l’apparente confusione (o comunque non coordinazione) dietro alla promozione dell’evento, è emersa una comunicazione forte e positiva come movimento locale/globale, ovvero generato dagli utenti e non tanto dai “proprietari” della mostra.
Sull’onda dell’entusiasmo intorno a questo hashtag, io ho visitato la mostra a Firenze in aprile del 2015. Ed era qualcosa di veramente favoloso! #whatwouldvangoghsay ?